Il film, che prende spunto dalle vicende del chitarrista folk Dave Van Ronk, viene spacciato, sbagliando, come spesso capita di sbagliare quando si prova a catalogare ed etichettare i film dei fratelli Coen, per uno dei film del duo appartenente ad una fantomatica filmografia minore. Niente di più falso.
Come in “A serious man” (2009), le vicende narrate non sono, come di consueto, corali e caotiche, ma più intime e legate alla vicenda momentanea, ma simbolicamente/allegoricamente abbraccianti un’intera vita, anzi intere vite; una panoramica di ampio respiro per descrivere la Vita (la maiuscola non è certo un refuso) immersa nell’ambiente pre-folk degli anni ’60 (il film è ambientato nel 1961) al Greenwich Village di New York.
La caratterizzazione “pre-folk” è fondamentale. Il contrasto tra quello che noi conosciamo del genere folk (amandolo o non sopportandolo, perché non lo si può reggere, ok, ma davvero non lo si può odiare) e l’anonimato e la poca rilevanza che aveva, ancora per poco, in quel periodo, sono il motore delle azioni che muovono il protagonista Llewyn Davis (Oscar Isaac) tra le strade di una letargica New York invernale e una innevata e gelida Chicago, gelida fino alle parole di Bud Grossman (F. Murray Abraham), dopo il provino al cantante: “Non ci vedo molti soldi qui”.
Essere dei pionieri non è facile. Può dare immenso successo se si fa la cosa nuova nel momento esatto in cui va fatta, sto ovviamente parlando di Bob Dylan lasciato intravedere per qualche istante sul palco; ma cosa accade se si arriva prima di quel momento esatto? Si va incontro alla derisione dei mostri sacri dell’era precedente, seppur morente, del Jazz (Roland Turner, John Goodman), al fallimento, all’indifferenza del pubblico e, di conseguenza, dei produttori delle case discografiche, in una parola: alla frustrazione. Arrendersi o continuare a provare, cocciuto e libero, come un gatto tigrato arancione?
Nardino d’Angelo