Il lato oscuro della produzione di banane
Un quinto dei lavoratori uomini è sterile e le lavoratrici rischiano di avere figli con difetti genetici.
Il processo di produzione di banane nasconde un lato oscuro: un quinto degli uomini che lavorano nelle piantagioni è sterile e le lavoratrici rischiano di dare alla luce bambini con difetti genetici e vedono aumentare del 50 per cento la probabilità di contrarre la leucemia. Tutto questo a causa delle sostanze chimiche tossiche impiegate per coltivare questo frutto, come spiegato sul Corriere della Sera:
“Oggi nelle piantagioni di banane si fa largo uso di sostanze chimiche tossiche affini agli insetticidi.
Queste sostanze possono creare disturbi neurologici, sterilità e leucemia nei lavoratori delle piantagioni. In più uccidono indiscriminatamente gli animali invertebrati presenti nel suolo. La malattia chiamata Sigatoka nera è controllata con ripetute spruzzate di fungicida, fino a una ogni tre giorni…
L’Università del Costa Rica afferma che un quinto dei lavoratori maschi delle piantagioni di banane è sterile, e che le donne hanno il 50 per cento di probabilità in più di sviluppare la leucemia e di avere figli con difetti genetici.
Oggi nelle piantagioni di banane si fa largo uso di sostanze chimiche tossiche affini agli insetticidi.
Queste sostanze possono creare disturbi neurologici, sterilità e leucemia nei lavoratori delle piantagioni. In più uccidono indiscriminatamente gli animali invertebrati presenti nel suolo. La malattia chiamata Sigatoka nera è controllata con ripetute spruzzate di fungicida, fino a una ogni tre giorni…
L’Università del Costa Rica afferma che un quinto dei lavoratori maschi delle piantagioni di banane è sterile, e che le donne hanno il 50 per cento di probabilità in più di sviluppare la leucemia e di avere figli con difetti genetici“.
Curiosità:
“La banana che noi mangiamo è un frutto sterile, senza semi, di una pianta infertile, cugina mutante di due immangiabili erbe selvatiche della giungla: la Musa acuminata e la Musa balbisiana… È originaria del Sud-Est asiatico, dove migliaia di anni fa qualcuno si imbatté per caso in una pianta che era un triploide, cioè aveva tre serie di cromosomi invece delle solite due… Ma se quella pianta primordiale era sterile, come è possibile che ora noi possiamo gustare la dolce polpa senza semi della banana?
Semplice: si prende un tralcio dalla base del fusto e lo si pianta. Ogni pianta è a tutti gli effetti un clone… Per inciso, da molto tempo i “creatori di nuove varietà agricole” (i breeders) usano questo trucco per ottenere frutta o verdura senza semi, avendo scoperto sostanze chimiche che alterano il corredo cromosomico… Pensavate che i pompelmi senza semi, l’anguria senza semi, i mandarini senza semi e così via fossero stati selezionati nel corso dei secoli da contadini con il cappello di paglia, la camicia a scacchi e un filo d’erba in bocca, come vuole l’immaginario popolare? Scordatevelo. Scienziati in camice bianco, maschera e tuta sterile hanno manipolato gli embrioni di quelle piante, sottoponendole all’azione della colchicina o di altri procedimenti mutageni, al fine di ottenere delle varietà commercialmente interessanti…”
Le ricerche scientifiche sui residui di pesticidi nelle banane:
La conseguenza di questa metodologia di coltivazione è la standardizzazione degli esemplari di banano: molto simili fra loro, se non identici dal punto di vista genetico. Questo è un aspetto molto pericoloso, poiché un parassita nuovo o particolarmente resistente ai trattamenti con pesticidi è potenzialmente in grado di distruggere interi bananeti.
Ecco che dunque i motivi per i quali le piantagioni di banani sono gestite attraverso un utilizzo massiccio di prodotti antifungini: evitare la diffusione di malattie potenzialmente distruttive.
Fra i più utilizzati troviamo i benzimidazoli, una categoria di pesticidi fungicidi sistemici ampiamente utilizzati in agricoltura sia per i trattamenti in campo che per quelli post-raccolta; la loro azione permette di controllare un’ampia gamma di patogeni dannosi sia per la pianta che per il frutto stesso.
In particolare, la famiglia dei benzimidazoli comprende composti come ilthiabendazolo(TBZ), il tiofanato-metile (TM) ed il benomyl; quest’ultimo, in tempi molto brevi in seguito al suo utilizzo, si trasforma in un suo derivato, il carbendazim (MBC).
Il thiabendazolo ad alte dosi è tossico per l’uomo e un’esposizione elevata può causare capogiri, inappetenza, nausea e vomito.
Un’esposizione cronica invece può causare un ritardo sulla crescita, nonché alterazioni sugli organi emopoietici e sul midollo osseo.
Il thiabendazolo è un additivo autorizzato dalla legislazione europea, e viene indicato con la sigla E233: è obbligatorio indicare in etichetta (o sui cartellini informativi) quando un prodotto è trattato con tale sostanza. Secondo la legislazione italiana, il massimo limite residuo è di 1 milligrammo/chilo per il carbendazim e 5 mg/kg per il thiabendazolo (D.M. 19 maggio 2000. Testo unico sui limiti massimi di residui di sostanze attive contenute nei prodotti fitosanitari).
Poiché i benzimidazoli sono impiegati in quantità massicce, è fondamentale il monitoraggio per valutare l’esposizione dei consumatori nei confronti di tali fungicidi: esposizione che, chiaramente, avviene mediante l’eventuale ingestione di prodotti (in questo caso, banane) contenenti residui dei trattamenti fitosanitari.
È interessante citare i risultati di una ricerca italiana svolta presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Salerno, pubblicata nel 2004 sulla rivista Food Chemistry [1]. Nella ricerca sono stati esaminati 50 campioni di banane importate in Italia da Ecuador, Panama e Costarica durante il biennio 2002-2003, misurando le concentrazioni di tre diversi tipi di fungicidi comunemente utilizzati nelle piantagioni tropicali: benomyl ed il suo metabolita carbendazim, thiabendazolo e tiofanato-metile.
Dei 50 campioni analizzati, ben 34 non presentavano residui; in cinque campioni (cioè nel 10% dei casi) è stato trovato del carbendazim, con concentrazioni in genere al di sotto della soglia di 1 mg/kg, comprese fra 0.140 e 1.100 mg/kg. Nel 22% dei campioni, ovvero undici di quelli analizzati in totale, sono state trovate concentrazioni di thiabendazolo comprese fra 0.050 e 2.510 mg/kg, ben al di sotto della soglia prevista dalla legislazione italiana.
In nessun campione, infine, sono emerse concentrazioni misurabili di tiofanato-metile. In sostanza, solo in due campioni sono state rilevate concentrazioni di carbendazim superiori a quanto previsto dalla legge.
Precisiamo: “valori inferiori ai limiti previsti dalla legge” non significa automaticamente “livello zero”: una minima parte di pesticidi rimane, e non sono disponibili dati riguardanti un’esposizione a bassi livelli, ma costante, nei confronti dei principi attivi come il thiabendazoloo altre molecole di sintesi.
Purtroppo spesso i pesticidi contengono metalli pesanti che vengono immagazzinati nel corpo e non espulsi facilmente, questo fa si che ogni giorno ci sia un accumulo di tossine fino alla soglia che fa sorgere la malattia o il tumore.
[1] Veneziano Attilio, Giovanni Vacca, Swizly Arana, Francesco De Simone, Luca Rastrelli. 2004. Determination of carbendazim, thiabendazole and thiophanate-methyl in banana (Musa acuminata) samples imported to Italy. Food Chemistry, 87(3), pp. 383-386.
Fonte
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