Frammartino parte dal cuore della Calabria fino alla scoperta dell’uomo e della natura.
“Abbiamo in noi quattro vite successive, incastrate l’una dentro l’altra: l’uomo è un minerale perché formato da sali, acqua e da sostanze minerali; l’uomo è un vegetale perché come le piante si nutre, respira e si riproduce; è un animale, in quanto dotato di conoscenza del mondo esterno, di immaginazione e di memoria; infine è un essere razionale perché possiede volontà e ragione. Abbiamo in noi quattro vite distinte e dobbiamo quindi conoscerci quattro volte.”
‘Le quattro volte’ è un documentario antropologico-etnografico che ha concorso al Festival di Cannes, per la regia di Michelangelo Frammartino.
La citazione che ho inserito ad inizio articolo non è una citazione del film, ma bensì sul film tratto del trailer che bene introduce all’opera e al modo in cui il documentario deve essere guardato. Altrimenti si rischia di ritenerlo un film “sulle capre”, come ha ingenuamente riassunto lo spettatore davanti a me durante la proiezione.
‘Le quattro volte’ è una panoramica senza dialoghi e musiche, ma pieno di suoni in presa diretta, di Caulonia (RC) e Alessandria del Carretto (CS). Si seguono le vicende di un pastore malato legato alle vecchie tradizioni popolari, la breve vita di una capretta smarrita e la maestosità di un abete, albero della cuccagna e carbone. Il film è metafisico, non solamente si guarda la natura, ma si prende anche posizione, cercando di interpretarla e di darle un senso. La natura diviene un Tutto perfetto, equilibrato e a-morale, dove il bene e il male sono parole vuote, senza significato. Non hanno senso di esistere. E’ la natura che esiste, che è. E noi ne facciamo parte. Ne facciamo parte sempre, noi e la natura siamo la stessa cosa. Non solo, ma noi siamo nella natura e la natura è in noi e nelle tante sfaccettature, nelle tante singolarità noi ci siamo ancora. Va da sé, dunque, che in noi vi è un po’ di tutte quelle particolarità (boschi, laghi, animali, pietre). Il tutto procedendo in maniera metempsicotica, passando da una vita ad un’altra vita, mediante la morte, da un soggetto ad un altro della narrazione/osservazione.
Non si deve essere d’accordo con Frammartino. La sua è solo una posizione tra le tante legittime che possono esserci. Il merito però del regista è quello di farci riscoprire che è il particolare, il fulcro di qualsiasi narrazione e che nelle esperienze particolari, dei paesini calabri e dei singoli soggetti del documentario, si posso trarre conclusioni generali, meritevoli di essere insegnate e dunque ricordate. Perché quello che Frammartino ci narra della Calabria, in fondo potremmo dirlo, in maniera diversa e simile, allo stesso modo, del nostro Abruzzo. E che ne verrebbe fuori se lo facessimo dell’Italia? Che bellissimo mosaico di esperienze particolari e tutte incastrate l’una dentro l’altra verrebbe fuori? Si uscirebbe dal piattume di una standardizzazione, nella vita e nel cinema, che seppur dà sicurezza, alla fine non porta a nulla di buono se non alla paralisi.
Nardino D’Angelo