TFR in busta paga? E’ un trucco per tassare (ulteriormente!) i lavoratori

Renzi aumento stipendi tfrCon la proposta di trasferire metà del TFR in busta paga, il governo Renzi penserebbe a fare cassa, mascherando la misura con la volontà di rilanciare i redditi dei lavoratori e i consumi.
Il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, ammette di non saperne nulla. Nemmeno dal ministero del Lavoro si hanno notizie al riguardo, eppure la materia sarebbe oggetto di discussione sul tavolo del governo, ossia del premier Matteo Renzi e del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: trasferire la metà del TFR in busta paga.
Sarebbe questa la scossa che il governo Renzi vorrebbe dare all’economia, mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori, formalmente senza creare problemi alle imprese.
E’ come se, ad un tratto, un lavoratore dipendente si trovasse in busta paga un aumento salariale di circa il 3,5%, non male in tempi di inflazione zero e di rinnovi contrattuali bloccati o rinnovati senza sostanziali miglioramenti retributivi.
Tuttavia, dal mondo delle imprese e dai sindacati è arrivato un coro di no, sono state esternate perplessità, perché a ben vedere, la misura potrebbe risolvere con due sconfitti e un vincitore. I primi sarebbero, come al solito, le stesse imprese e i lavoratori, mentre a vincere la partita potrebbe essere solo lo stato. Vediamo perché.

La disciplina attuale
L’attuale disciplina sul TFR è piuttosto complessa e prevede regole diverse, a seconda che il TFR sia maturato fino alla fine dell’anno 2000 o successivamente. In generale, l’impresa è obbligata ad accantonare per ciascun dipendente un ammontare pari alla retribuzione lorda da questi percepita nell’anno e divisa per 13,5. Ogni anno, l’accantonamento viene rivalutato dell’1,5% fisso, a cui si aggiunge il 75% dell’inflazione.
La rivalutazione viene tassata ogni anno con l’aliquota dell’11%, mentre la quota capitale sarà tassata in un’unica soluzione solo al momento della liquidazione, ossia quando il lavoratore viene licenziato, si dimette o va in pensione (oltre al caso di richiesta di acconto). In questo caso, il TFR sarà tassato separatamente con un’aliquota pari alla media pagata dal lavoratore negli ultimi 5 anni, concedendo opportune detrazioni per i redditi fino a 30.000 euro.

Il trucco
Se passasse la proposta informale ventilata negli ambienti governativi, le imprese dovrebbero inserire in busta paga la metà del TFR da accantonare ogni anno. Con ciò, avrebbero problemi di liquidità, soprattutto, le imprese con meno di 50 dipendenti, che oggi utilizzano nei fatti il TFR come fonte di autofinanziamento.
Infatti, la disciplina prevede che il lavoratore di imprese con almeno 50 dipendenti possa scegliere se versare il suo TFR all’Inps o se trattenerlo in azienda.
Le imprese di minori dimensioni, tuttavia, non accantonano mensilmente o annualmente l’importo da liquidare al lavoratore alla fine del rapporto di lavoro, né stipulano apposite polizze assicurative, scegliendo spesso di erogare la somma all’occorrenza.
Con la proposta di cui sopra, le piccole imprese sarebbero costrette a mettere mano alla loro liquidità, in un momento in cui riscontrano già gravi difficoltà, a causa del credito insufficiente erogato loro dalle banche e per i mancati pagamenti della PA. Sulla carta, la misura appare neutra, ma nei fatti non sarebbe così. Equivarrebbe, nel breve termine, a un aumento salariale a carico delle imprese.
Attenzione: nemmeno i lavoratori sarebbero del tutto avvantaggiati. Trasferendo parte del TFR in busta paga, questi sarebbe tassato con le stesse aliquote applicate al loro reddito, ossia di più di quanto non lo sia oggi con la disciplina sopra accennata. Per non parlare del fatto che verrebbe meno una forma di finanziamento della previdenza complementare, che sarebbe azzoppata sul nascere.
Ancora una volta, lo stato farebbe cassa. Su un flusso di accantonamenti annui intorno ai 26 miliardi, 13 andrebbero in busta paga e si riuscirebbe così a tassare sin da subito una montagna di liquidità che dovrebbe altrimenti essere tassata solo alla fine del periodo di lavoro.
Nel lungo periodo, per lo stato sarebbe indifferente, ma nel breve troverebbe qualche miliardo in più di gettito fiscale. E per quanto sopra detto, tasserebbe oggi di più ciò che dovrebbe tassare, allo stato attuale, domani di meno.
Non si tratta di misure per rilanciare i consumi e per dare più soldi in busta paga ai lavoratori, quanto un escamotage per fare cassa sulle spalle di imprese e dipendenti.

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